24 luglio, ore 9

 

Abbiamo lasciato Marradi un’ora fa, e adesso scendiamo per la valle del Lamone sulle nostre macchine elettriche. La strada è affollata di gruppi di ciclisti, turisti variegati, camion e trattori. La confusione non lascia spazio a dubbi: siamo tornati alla civiltà.

La pieve compare come per scherzo, ai margini della strada, appena dietro la ferrovia. Un occhio distratto potrebbe passare senza degnarla di uno sguardo. Ma non sono forse le bellezze celate quelle più sorprendenti e più rare? Da fuori, la Pieve del Tho non potrebbe essere più semplice: una facciata romanica sobria, come per l’eremo di Gamogna. Ma qui i colori più caldi e pastosi dei laterizi di riciclo impiegati per la costruzione tradiscono la vicinanza della pianura romagnola. Quel “Tho” del suo nome, ci spiega Sandro, la nostra guida di oggi, è un accorciamento popolare da “ottavo”. La pieve, intitolata a San Giovanni, era situata all’ottavo chilometro della strada che collegava Faenza, e dunque la via Emilia, la spina dorsale della pianura, all’Etruria, ovvero all’odierna Toscana. Periodo di costruzione alto Medioevo, durante il disgregamento definitivo per potere imperiale. Ma è l’interno della pieve ad affascinarmi in modo particolare. Se dovessi spiegare a un turista straniero cosa è stato il nostro Medioevo, questo potrebbe essere un buon punto di partenza. Ibridazione, riciclo, re-invenzione, fusione di stili e culture: dal quel guazzabuglio siamo usciti noi, alla faccia dei puristi e dei nazionalisti nostrani. L’architettura disordinata di questa pieve riesce in un qualche modo a esprimere calma e simmetria. Ma, a guardarci bene, non c’è una colonna della stessa altezza: una più alta, l’altra più bassa; un pezzo di granito riciclato del IV secolo, proveniente dall’Anatolia, reca una dedica ai tetrarchi; le arcate di sostegno sono costrette ad allungarsi e accorciarsi a seconda dell’evenienza; capitelli sono usati come zeppe per tenere su la baracca; il più bello, un tripudio corinzio, offre al visitatore i suoi rigogli floreali come acquasantiera. Sotto l’altare una lunetta di marmo, forse del IX secolo, mostra un Cristo benedicente fra due angeli dai visi allungati come le figure di Modigliani; tutto attorno palme sospese nel cielo senza alcuna intuizione di prospettiva, cavalli stilizzati che sembrano disegnati da un bambino. Quest’arte semplice, dimentica delle regole antiche, commuove per la sua immediatezza. Frammenti di affreschi quattrocenteschi nel catino absidale: una veste blu, cinque stellone rosse, un paio di mani in posizione di dolore. Manca la scena centrale, la crocifissione; ce la dobbiamo immaginare a partire da questi indizi. La nostra carovana ammira in silenzio, vaga con lo sguardo da un particolare all’altro, ascolta le note dei Solisti Italiani che cantano due pezzi prima di riprendere il viaggio. Ascoltando mi viene da paragonare l’architettura a un’orchestrazione musicale: mettere d’accordo i ritmi, raggiungere un equilibrio con i materiali a disposizione, far sì che un ordine esca da un bricolage di sassi e graniti come da fiati e ottoni. La lezione di questa pieve, se proprio devo trovarne una, è questa: non è la qualità intrinseca del materiale a fare un capolavoro, ma l’ingegno che lo mette in forma.

 

24 luglio, ore 10

 

Breve tappa a Brisighella, prima di scendere ulteriormente verso valle e cominciare il cammino verso Oriolo dei Fichi. Sandro ci mostra le due pale d’altare conservate nella Collegiata, una del Palmezzano e l’altra del Guercino. Ma è un’opera contemporanea a colpirmi di più. Saliamo sulla via degli Asini. Ci sarò stato decine di volte, ma non avevo mai notato il geniale intervento artistico del giapponese Hidetoshi Nagasawa. Su ogni finestra a lunetta della via coperta l’artista ha pitturato uno spicchio d’oro, per mimare la luce del sole che ogni mattina, quando sorge, ne imporpora l’intonaco. Un gesto minimo ed elegante, intrinsecamente giapponese. Eternare un momento fugace per salvarlo e prendersene cura. Replicare la bellezza del sole per goderne più a lungo… Continuo a rimuginarci durante la colazione, prima di risalire sul bus.

 

24 luglio, ore 15

 

Quanto diverso il cammino di oggi rispetto alle scorse giornate! Non vette qui, non boschi, non colori forti: ma spazi aperti, panorami larghi come i visi di pianura, schiere e schiere di filari di viti, colline gagie e spelacchiate dall’estate. Poche salite, e poco impegnative. La carovana parla con più lena, si scherza, si approfondiscono le conoscenze. Simone, il video maker silenzioso e laborioso come un’ape, ci riprende col suo drone, mentre guadiamo un fiumiciattolo in mezzo alle canne. Il cammino offre poca ombra. Il sole picchia come un disco di bronzo e ci rallenta. In mezzo alla campagna compare come un miraggio la chiesa Rivalta – e potrebbe essere davvero un’illusione. La costruzione è uno scherzo stilistico figlio dell’eclettismo primo novecentesco, nascosto fra le colline. Sembra impossibile, ma qui si conserva un fonte battesimale di Arturo Martini. Arriviamo a una quercia centenaria e riposiamo un po’ le zampe sotto la sua gigantesca ombra. Qualcuno abbraccia l’albero in un impeto di amore mistico per il tutto. Io non riesco a concepirlo il tutto, e mi limito a osservare, fumando una sigaretta. La nostra meta è a pochi chilometri, la vediamo davanti a noi, sulla cima della prossima collina: è la Torre di Oriolo, che spunta assurda e militaresca in mezzo a tutto questo languore estivo. Pare disegnata sulla quinta assurda di un set cinematografico, o pitturata da un de Chirico in vena di scherzi.

 

24 luglio, ore 17

 

Ci stendiamo stremati sotto l’ombra dei fichi che crescono ai piedi della torre. I musicisti sono qui già da qualche ora, per preparare lo spettacolo di stasera. Ambrogio ci mostra campane, campanacci, sonagli, sistri; ci spiega come suonarli e come andare a tempo con questi strumenti antichi, legati alle transumanze e alle tradizioni locali. Armeggio goffamente con un campanaccio per un po’, cercando di fare del mio meglio. Dietro al palco, il burattinaio fa le prove. Dal sipario compare Pulcinella. In napoletano si lamenta del caldo, chiede dove sono finite le salsicce che gli erano state promesse; poi si stende stremato sul palco. Quanto poco serve al talento per intrattenere! E quanto lavoro nascosto, lavoro di una vita, per arrivare a questi equilibri fatti di niente! Prima di riposare e assistere al concerto, con le ultime forze salgo assieme a Luca sulla cima della Torre di Oriolo, questo diamante a sei facce incastrato nella collina. Sulla terrazza si gode una vista quasi completa sulla pianura. C’è Faenza, rossiccia, che si stende abbastanza vicina sulla sinistra. Qualche chilometro più a sud, infilzata sull’Emilia, si vede Forlì: vedo il campanile di San Mercuriale alto e slanciato, che da qui pare una matita. E da qualche parte, in fondo, davanti a noi, c’è Ravenna, ultima meta del nostro viaggio, ultima meta del viaggio di Dante.

 

 

Diario a cura di Iacopo Gardelli 

 

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